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mercoledì 28 dicembre 2011

Vedi alla voce: Amore

David Grossman
1986, Einaudi

Una volta chiuso il libro sorgono spontaneamente una certezza e una domanda.
La certezza è che un libro del genere non puo' essere recensito nel senso proprio del termine: a meno di parafrasarlo parola per parola a mo' di Divina Commedia, si ricade necessariamente in un riassunto insipido da quarta di copertina; per quanto mi sembri di tornare il liceale che si trincerava dietro la presunta complessità di un libro mai aperto prima pur di arrampicarsi sugli specchi durante un'interrogazione, sono costretto ad ammettere che questo romanzo ha una struttura troppo articolata per essere imprigionato in una recensione canonica.
Il fatto che il protagonista sia il piccolo Momik, nipote dell'ebreo scrittore per bambini Anshel Wasserman, il quale a suo tempo narrò la sua ultima storia a un gerarca nazista, è quasi marginale nell'economia del libro nel suo insieme; la trama, abbastanza scheletrica, è soltanto un sostegno su cui Grossman appoggia le sue riflessioni e la sua sensibilità, che sono il vero fulcro del romanzo: da qui la difficoltà di recensire in maniera soddisfacente il libro, evitando di stilare uno spoglio elenco dei temi trattati, che spaziano dai sempreverdi Olocausto ed amore per introflettersi nell'intimità dell'animo dell'autore.

La domanda invece è: perchè un libro scritto così bene e di una tale finezza culturale sia rimasto quasi nel sottobosco letterario senza elevarsi al rango di classico del Novecento?
Che Grossman scriva bene, per quanto l'arte sia per definizione soggettiva, è quasi un dato di fatto: il lessico è ampio e accurato, la sintassi sempre pulita, è impossibile trovare vizi di forma. Un elemento che però non depone a favore dell'opera è il ritmo della narrazione, a dir poco compassato, e la narrazione stessa sicuramente non straborda di eventi; il lettore, sopratutto nelle prime duecento pagine, è spesso invogliato a interrompere la lettura.
Anche la vena intimistica che impregna tutto il romanzo non è adatta a lettori che cerchino libri in grado di occupare in maniera leggera il tempo libero; lungi dal voler implicitamente esaltare la personalità di chi scrive questa recensione, per apprezzare appieno quanto Grossman mette per iscritto sono necessari un bagaglio culturale e personale non banali, nonché una disposizione d'animo non molto diversa da quella destinata allo studio: è quindi una lettura che richiede concentrazione e attenzione, doti che non tutti i lettori sono disposti a scomodare.
Un terzo fattore che ha ostacolato l'ascesa del libro, almeno fra il grande pubblico, è la già citata complessità strutturale. La trama si articola su più livelli: volendo semplificare parecchio, Momik rivive come uno spettatore i momenti in cui il nonno raccontava al gerarca la sua storia, in cui gli stessi Momik e Anshel agiscono insieme ai suoi vecchi personaggi, e Momik vi aggiunge a sua volta individui conosciuti durante la sua stessa vita; il tutto senza che si segua un itinerario cronologico, ma si procede quasi per associazione di idee: illuminante il quarto e ultimo capitolo, in cui la storia viene spezzettata e somministrata a brandelli sotto le diverse voci di un ipotetico vocabolario.

Da quanto scritto finora si evince che un libro di questo tipo non è certamente per tutti i palati e che nel giudicarlo non possono esistere mezze misure: il mio parere entusiastico è che sia troppo rivoluzionario per essere apprezzato a cavallo fra i nostri millenni, ma dobbiamo sperare che nei prossimi decenni i nostri successori guardino indietro e sappiano dare il giusto tributo a un libro che potenzialmente avrebbe potuto riscrivere la storia della letteratura.



Voto: 9,5

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